In questi giorni in Sicilia si discute di chi deve pagare i debiti contratti. La discussione è confusa e recriminatoria. È il modo peggiore per affrontare una questione molto seria. La regola generale è che il debito lo paga chi ha tratto vantaggio dalle risorse ottenute. Su questo punto occorre essere molto chiari. Un debito è un problema se non ha generato le risorse per ripagarlo. In questo caso, se si esclude l’accensione di nuovi debiti, ci sono solo due modi per pagarne uno venuto a scadenza. Si può ridurre il patrimonio oppure si possono intaccare i redditi. Nel primo caso si scarica il peso del debito su coloro che hanno accumulato nel passato; nel secondo su coloro che producono nel presente. La vendita di pezzi del patrimonio dello Stato è un esempio del primo tipo; un inasprimento fiscale un esempio del secondo. La scelta su come pagare un debito non è quindi senza effetti sulla distribuzione del reddito delle famiglie. Se non si separa la massa attiva dalla massa passiva e si tenta di conservare il patrimonio si dovrà per forza raccogliere risorse da coloro che lavorano. Se invece quella separazione si fa, i redditi delle famiglie saranno risparmiati. A volte i luoghi dove risiedono i patrimoni sono diversi dai luoghi dove si producono i redditi. In questo caso anche la distribuzione territoriale dei redditi ne risulta variata. Qualcosa del genere sta accadendo in Sicilia. La Regione Siciliana ha accumulato debiti nel passato; l’entità di questi debiti non è univoca, a sentire le diverse fonti ufficiali. Ma anche la loro causa è discussa. Per capire come pagarli si può applicare lo schema descritto prima. La Regione Siciliana ha accumulato debiti nel passato; l’entità di questi debiti non è univoca, a sentire le diverse fonti ufficiali. Ma anche la loro causa è discussa. Per capire come pagarli si può applicare lo schema descritto prima. Il primo somiglia ad un fallimento, con un commissario che si occupa del pagamento dei debiti attraverso la liquidazione di alcune delle attività esistenti. Il secondo si caratterizza per lo sforzo di mantenere il patrimonio intatto mediante il ricorso al contributo generale.Questo schema può aiutare a comprendere le diverse posizioni in campo. Esse sono associate a diverse distribuzioni del peso del debito. Ed è evidente che ognuno degli attori coinvolti cercherà di rendere minimo il peso che grava su di sé. Ridurre la questione a queste due posizioni estreme è, tuttavia, pericoloso perché rischia di avere vincitori e vinti in una questione di vitale importanza per la Sicilia. Per trovare una soluzione ragionevole è bene fare un passo indietro e ricordare, come ormai fanno molti commentatori, che il divario tra la spesa del settore pubblico in Sicilia e la sua capacità di raccolta non è un fatto di mera solidarietà territoriale. È sotteso ad esso uno scambio che, da un lato, ha visto ingenti risorse confluire in Sicilia sotto varie forme e, dall’altro, ha generato una offerta di consenso da parte dei siciliani, che ha permesso il mantenimento di un certo ordine politico-economico nazionale. Le risorse sono arrivate sotto forma di trasferimenti dal governo centrale; di risorse prelevate ai siciliani e non rivendicate dal centro; di copertura dei poteri criminali; di credito bancario facile. In cambio di tali risorse è stato offerto un contributo alla stabilità politico-affaristico-istituzionale del paese. Oggi la questione gira attorno a chi deve pagare i debiti; ma per dare una soluzione non possiamo ignorare l’origine di quei debiti. Semplificando ancora una volta, si può dire che una parte di quei debiti si inserisce nella grande operazione di scambio descritta prima, un’altra parte è il risultato del fatto che i siciliani hanno esagerato nel pensare che quello scambio valesse così tanto da giustificare risorse senza limiti. Insomma non è stato uno scambio di equivalenti: sotto alcuni profili i siciliani hanno ricevuto di più di ciò che il loro contributo avrebbe giustificato. Ma non si può ignorare un altro profilo, ossia quello della qualità delle risorse ricevute. La merce con cui il contributo alla stabilità è stato pagato ha soddisfatto esigenze immediate, ma non ha aiutato a costruire una dotazione infrastrutturale adeguata, una dotazione immateriale adeguata, una dotazione istituzionale adeguata. Insomma i siciliani sono stati ripagati in un modo che forse non era quello previsto nel contratto implicito che essi hanno stipulato con il resto del paese.Da questa contabilità storico-territoriale deve dunque emergere: la dimensione dello scambio tra equivalenti; la dimensione del pagamento non giustificato dallo scambio; la vera natura della merce utilizzata per pagare i siciliani. È da queste valutazioni che deve risultare la ripartizione del carico del debito. È ovvio tuttavia che non si tratta di un calcolo che si può fare con precisione. Ma il riconoscimento delle diverse poste in gioco ed il loro segno, positivo o negativo, deve essere fatto. Si abbandonino quindi i furori punitivi, da un lato, e le difese ad oltranza, dall’altro. Si riconosca che, innanzitutto, i debiti vanno pagati; che la distribuzione del carico di tale pagamento non può rispondere a logiche di forza; che la storia va letta con onestà intellettuale; e che la distribuzione di quel carico deve, in qualche modo anche approssimativo, rispettare la ripartizione dei vantaggi che quel debito ha apportato.

Maurizio Caserta – docente di Economia politica alla facoltà di Economia di Catania

Articolo pubblicato originariamente su “La Sicilia”, 22 luglio 2012

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