CAPITOLO PRIMO di Nunzio Platania

Istituto di Maternità dove si racconta dell’affannoso acquisto e del primo amorevole approccio con la beneamata

 

Era enorme, minuscola, spartana, lussuosa, di legno, appollaiata su trespoli.

Il rivenditore mi guarda sconsolato : – La prende?

Era la terza volta che ci tornavo a vederla e lui cominciava a scocciarsi.

Avevo un nodo alla gola, inghiottendolo con fatica mi esce un flebile:

– Non so ancora, devo vedere…forse domani.

Girò i tacchi visibilmente irritato.

– Non me la darà più! – mi folgorò dentro.

– Aspetti…per il prezzo…

– Gliel’ho già detto l’altro ieri – vociò il cerbero – unmilionesettecentomila.

– Va bene la prendo – mi usci senza il permesso della volontà e quando la volontà riprese il comando mi si attorcigliarono le budella…

Eravamo dalle parti di Monfalcone… nel 1974… La Sicilia dove dovevo portarla dall’altra parte del mondo. Io avevo trent’anni e lei sui trespoli mi guardava dall’alto e dal lungo dei suo cinque metri.

Non aveva nome…Ma non sapeva che l’avevo già battezzata…Dafne, la prima e come ogni primo amore, l’indimenticabile.

Il cerbero si ammansì con l’acconto.

– La porta via subito?- No, tra un mese, devo prendere le ferie, ma vorrei provarla prima. La fecero malamente rotolare giù dai trespoli e la misero in acqua.

Assunse subito quell’aria magica che ebbe per i successivi undici anni.

Quando calcai per la prima volta il suo ponte si piego dolcemente dal mio lato e mi accolse con un dondolio celestiale.

Entrai nell’angusta cabina…niente.. il puro vuoto.. non un oggetto.. un gradino e poi basta. Rannicchiato , guardavo le ordinate di mogano con le opache tracce di una verniciatura ormai screpolata, rovistavo nei gavoncini sotto il tavolone che fungeva da cuccetta, una sassola, alcune cime e due ammuffiti sacchi a prua.

Mi intrufolo nel cunicolo e tiro fuori i sacchi

La randa portava un bel simbolo della veleria.

Il fiocco aveva delle vistose macchie di ruggine e i pistoni di alcuni garrocci erano bloccati; sul fondo del sacco una lunga cima nera.

Sotto il pagliolato, un ancorotto a ombrello saldato a un metro di catena attaccata ad una sfilacciata cima piena di catrame rinsecchito.

E tutto…la mia nave e tutta qua.

Uscì nel pozzetto; squadrato, spartano, due panche, un golfare al centro del pagliolato, due gallocce alle sponde laterali.

Il boma di legno faceva bella figura attaccato alla draglia di dritta, l’albero di legno mi parve enorme, aveva l’attacco della canaletta scheggiato malamente.

Una delle sartie era stata allungata con un maniglione zincato.

Appeso sullo specchio di poppa uno sconosciuto Ducati cucciolo 5 hp, il tubo dell’erogazione fuoriusciva da un foro del gavone e pendeva mestamente.

A poppa il timone esterno, con due lucenti agugliotti in acciaio.

La barra aveva un tubo di plastica verde all’estremità.

Le mie arterie pulsavano pericolosamente.

Ero un miscuglio di sentimenti che turbinavano senza pietà.

La gioia – avevo la mia prima barca – si mescolava indisturbata coi tormenti. Ce la farò a viverci dentro per un mese con tutta la famiglia?

E …come si fa a portare una barca a vela in Sicilia da qui?

Ho fatto bene…è una follia… Non sai niente di navigazione, testone, dovevo farlo…ti ammazzerai…ci voglio provare.

– Esco per provare la barca, dico a uno che si trovava sul pontile.

Tiro fuori dallo zaino con cui ero partito dalla Sicilia il mio striminzito libro di navigazione, Mondadori economica ,ma non volevo farlo vedere al marinaio che mi guardava con un’aria perplessa.

Il motore parti al primo colpo e questo mi riempi per un attimo di felicità, ma la staffa non voleva saperne di scendere giù.

Arrivò il marinaio e dal pontile mollò un pedatone dall’alto.

Fatta! – Grazie! – Non mi rispose neppure.

Avevo avuto un gommone per tanto tempo e quindi, con un bel motore rombante che mi spingeva, sentivo di avere in mano la situazione.

Quando la barca si scosto dal moletto e eccelerai un poco, senti che potevo farcela.

Si muoveva e per il momento mi bastava.

Mi allontanai un mezzo miglio circa al largo. Spensi il motore per assaporare la felicità totale.

C’era una leggera brezza che veniva da terra.

Avevo studiato durante il viaggio in treno come si fa a montare una randa. Meticolosamente, seguendo le istruzioni, cominciai, canaletta del boma, fissare l’estremità, inferire gratile, dopo aver armato la randa con le stecche.

Accidenti, non c’era traccia di stecche tra la mia favolosa attrezzatura.

– Non saranno essenziali- mi confortai

Drizzo, la vela svergolava, bisogna mettersi con la prua al vento, accendo di nuovo il motore e metto la prua a terra, vado alla drizza che è sull’albero lasciando il motore acceso, prima di arrivarci la barca è di nuovo al traverso e la randa striscia malamente contro le sartie e non va su. Come si fa?
Torno al motore, rimetto in rotta, spengo, mi precipito, la vela va su.

E’ piena di pieghe strane. Afferro la scotta dal paranco che avevo montato sul boma e alleluia.. la barca si muove adesso, spinta innegabilmente dal vento, con me a timone.
Gioia divina per quasi un’ora, durante la quale faccio calcoli. “Mettiamo che faccio 20 Km al giorno L’Adriatico è circa (quant’è lungo l’Adriatico? Boh! m’informerò) mettiamo 1000 Km diviso 20 fa 50 giorni. Dopo 50 giorni di questa pacchia la mia barca entrerà trionfante nel porto di Catania”.
Allora è deciso: vado, prendo l’allora marmocchio di quattro anni Giuseppe, mio figlio,lo imbarco assieme a moglie certamente riottosa e….

Dunque : la prima uscita in mare :elettrizzante Il primo rientro dal mare : sanguinolento. Vi spiego : avevo subito un grave intervento chirurgico appena 20 giorni prima (asportazione di 4/5 di stomaco, perchè ulcerato tipo scolapasta : il chirurgo “Non camperà più di un anno, se va bene. E per giunta dovrà mangiare per tutto il tempo restante un grissino e bere mezzo bicchiere di latte ogni ora per sostentarsi”. Ragion per cui avevo deciso di comprarmi la barca e mandarlo al diavolo facendo di testa mia (I fatti successivi mi hanno dato ragione!). Allora il rientro… Vento da terra, appena mezzo miglio dal pontile. Bolinare: il verbo era anche citato nel mio manualetto tascabile, ma, sarà perchè la barca non sapeva leggere, sarà perchè era tosta come il suo nuovo proprietario ,il fatto era che tutte le direzioni le andavano bene ,ma quella diretta verso il pontile, neanche a parlarne. “Forse non è vero che le barche tornano da sole al punto di partenza, come i boomerang, – cominciai a sospettare- Forse bisogna sedurle con un incantesimo”.

Facciamo finta di niente e vediamo come va a finire. Mi misi a fischiettare, simulando una indifferenza degna di un teatrante e, con fare non sospetto, ancheggiavo con la barra tra le cosce. (Veramente all’impiedi la barra arrivava appena agli stinchi). La barca, per nulla commossa, continuava a filare parallelamente alla costa; poi, forse scocciata di tanta alterigia, improvvisamente si coricò prima su un fianco ,attimo di panico: “Oddio, è permalosa!” – mi dico – “ma io di femmine permalose me ne intendo, perbacco, lo so come vanno trattate; facciamole fare quello che vuole”.

Infatti, prima prova a sbattermi fuori bordo con aggraziati sculettamenti, poi passa alle maniere forti e brandendo il boma come il mattarello delle vignette di Braccio di Ferro, tenta di fracassarmi la testa.

Per nulla convinto che toccasse a me sloggiare dalla mia appena acquistata proprietà,oppongo una resistenza passiva ma determinata e cocciuta, finchè di botto si placa e mi guarda ,un po ansimante, mi parve… “T’ho domata – pensai con un ghigno soddisfatto- l’hai capito finalmente chi comanda qui”
Per tutta risposta, come leggendo nei miei pensieri, la bella si libera con uno strattone dalle redini (pardon: dalle scotte),e, briglie al vento, nitrendo e scalciando, roteando come un puledro nel rodeo, si esibisce in un numero impressionante di evoluzioni da concorso ippico e, dopo un altro apparente ritorno di calma, con un gran balzo si mette a correre a tutta birra verso il pontile.

“Lo dicevo io che il libro dice fesserie. Le barche sanno tornare da sole, senza tutte quelle strambe manovre da fare.” – gongolavo strafelice. Frattanto il pontile s’avvicinava, vela tutta in fuori, il timone gorgheggiava un delizioso motivetto.

“C..zzzz! -stilettata cerebrale- Saprà pur fermarsi, sta puttana.” Dov’è il freno a mano? Concitata consultazione del manuale, adesso anche bagnato. Niente! La prua diretta implacabilmente al centro esatto del barcarizzo in legno che fungeva da moletto. All’estremità una briccola.

Prendo il comando. Ma lo prendo afferrando l’estremità del boma e portandola al centro barca
Lei fa una elegante piroetta laterale e, porgendo il fianco alla briccola, continua la sua anarchica veleggiata dandomi generosamente il tempo di abbarbicarmi alla medesima…
Dafne: dislocamento 1500 chili che lanciati a, diciamo, tre nodi fanno una discreta quantità di energia da contrastare con busto fuori e braccia attanagliate alla briccola. Si arrestò, ma senti una strano rumore venire dai miei trentacinque punti di sutura che dallo sterno arrivavano all’ombelico.
Quando ebbi il coraggio di guardare, dalla ferita che si era riaperta apparve un pezzo del mio budello…

Eppoi dicono che è difficile guardarsi dentro… Mentre con la metà del cervello esaminavo l’alternativa se continuare a svenire oppure morire direttamente, con l’altra soppesavo se era meglio mollare la briccola a cui mi ero abbarbicato, per tenermi invece la pancia, consentendo di conseguenza alla scalmanata di farsi un altro giretto, oppure tenermi ancora avvinghiato e guardarmi la pancia mentre perdeva il suo prezioso contenuto che nel frattempo fuoriusciva abbondantemente.
Alla fine decisi di spartire democraticamente le mani : una per la pancia e l’altra per la barca, la quale, ancora invelata, cattivamente se la ridacchiava sbatacchiando la vela per la contentezza. L’occhio mi cadde sulla punta di una canna da pesca che ondeggiava all’angolo opposto del pontile. Urlai. Apparve un ragazzino più canna, al quale col tono più serafico che potei, faccio: “senti, mi fai il favore di chiamare qualcuno; devo riconsegnare la barca”. Ora, a parte il mio accento, non proprio di quelle parti, che scoraggiò la già labile capacità decodificativa del pargolo, l’apparente tranquillità del messaggio depistò l’infante il quale, quindi, se la prese comoda e soltanto 10 o 15 svenimenti dopo riapparve con l’omaccione che avevo conosciuto alla partenza. Appena mi vide costui assunse l’espressione di uno che sta pensando: “Lo dicevo io che quello era un imbranato. Guarda come si è combinato!” Mi tirarono fuori dalla tinozza che nel frattempo si era colorata di un bel porporino slavato, e,a mia insaputa, giacchè nel frattempo me l’ero squagliata nel mondo dell’incoscienza, mi caricarono su una quattro ruote e quindi quando riaprì gli occhi mi trovai in una sala di pronto soccorso, che ruotava come una giostra. Mi tolsero uno straccio con cui qualcuno pietosamente mi aveva fasciato, e…patapunfete, successe il finimondo. Dovete sapere che quando ero partito la zona del corpo incriminata aveva l’aspetto di un salsicciotto bitorzoluto di quel coloro roseo che solo la salsiccia appena insaccata sa assumere. Ma adesso assomigliava piuttosto al bancone di un macellaio con velleità di scultore post-modernista. Appena videro l’opera d’arte il medico e gli astanti tutti, prima informati che si trattava di un graffietto, tra lo sbigottito e il furioso cominciarono a rafficare domande inquisitorie.

Il tale sulla cui macchina mi avevano caricato aveva loro riferito che mi ero fatto male uscendo in barca. E i tipi in camice bianco non sapevano capacitarsi sul cosa ci faceva in barca da solo uno conciato in quel modo e menchemmai quale forza mostruosa aveva potuto scucirmi in modo così barbaro.
Evidentemente non sapevano nulla sul dislocamento e il moto inerziale, nè io avevo molta voglia di nutrirli di quel sapere anche a me peraltro sconosciuto. E siccome ripugnava anche a me riferirgli che appena venti giorni prima mi avevano dato per spacciato e che mi avevano in extremis sottoposto ad un intervento chirurgico durato nove ore, nonché della mia naturale diffidenza per le previsioni dei medici, me ne usci farfugliando di una feritina fatta durante una gara coi coltelli “Sapete com’è…noi siciliani…cumpari Turiddu…la cavalleria rusticana…blah…blah…”. Alla fine mi guardavano in modo strano e dopo che mi ebbero ben bene ricucito, ormai palesemente convinti che si trovavano di fronte qualcuno incapace di intendere e volere, dibatterono tra loro se era meglio ricoverarmi al neuropsichiatrico, oppure continuare a cucirmi direttamente i polsi a mò di manette eterne, atte a impedirmi permanentemente ulteriori atti inconsulti. Mentre erano ancora indecisi me ne scappai, senza nemmeno ringraziare. Però rimisi coscienziosamente a posto la flebo che mi avevano attaccato al braccio. Gli infermieri della neuro sguinzagliati non riuscirono ad acciuffarmi perché a tutto pensarono salvo che venirmi a cercare in barca. Questo dimostra che gli infermieri non leggono i libri gialli e quindi non sanno che l’amante torna sempre sul luogo del diletto.

CONTINUA

Nunzio Platania

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