CAPITOLO TERZO di Nunzio Platania

Dove si fa conoscenza con la solidarietà della gente di mare

 

Arrivammo all’alba. Livida, nebbiosa, un giorno di morte.

Mi ficcarono in un canale di Chioggia. Di me, stremato dopo una lotta che era continuata ininterrottamente per oltre 12 ore, quando finì di svuotare la barca della mezza tonnellata di acqua, era rimasta solo una vaga traccia. Sprofondai in un sonno che voleva essere eterno. Quando qualche ora dopo mi risvegliai, lo spettacolo della mia appena acquistata prima barca, lo ricorderò sempre,campassi mill’anni. Sulla coperta era come se ci fosse passata una mandria di bufali. Il pulpito di prua divelto. Una bitta a prua sparita, al suo posto un buco, l’altra sbilencamente attaccata con un solo bullone. Due sartie si tenevano con un paio di trefoli, gli altri aperti a mazzetto di fiori; le lande laterali avevano sollevato le paratie interne di un palmo, staccandole dal fasciame; la scassa su cui poggiava l’albero in acciaio storta e semi divelta. Il piede del motore storto, della staffa si era tranciata la testa di un bullone e gli altri avevano ovalizzato i fori. Specchio di poppa scollato nella parte alta all’attacco della coperta. Una drizza era misteriosamente salita per volontà propria in alto sull’albero. Eccetera.

Guardavo sconsolato e mi veniva da piangere. “Addio bel viaggio” – mi dicevo e poi mi confortavo “Poteva andare peggio”. I familiari dormivano ancora. Cominciai a farmi un poco di scrupoli per la verità e soppesavo tristemente l’idea di cedere il rottame a qualcuno e tornarmene a casa. I pescatori chioggioti nell’arco di quel funesto primo giorno passavano sul molo e guardavano riverenti.
Qualcuno mi chiese cosa era successo. Glielo raccontai in breve. Annuiva pensoso, senza commentare. Quando seppe del bambino e di mia moglie sembrò turbarsi. La sera tutti i pescatori di quel canale sapevano la storia. Passammo il primo giorno a leccarci le ferite. L’indomani apparve il timoniere del mostro rombante, l’occhialuto cervello, finalmente parlò. Prima mi commiserò un poco, poi mi porse il conto su un foglietto di blocco notes a quadretti : Duecentocinquantamila. Uno stipendio di allora. Tutta la mia cassa che doveva portarmi a Catania. Cominciai ad entrare nella depressione. Ma che farci? Lui se ne va, fiducioso sulla mia solvibilità e apparve Corrado: era un pescatore proprietario di un peschereccio, faceva lo strascico. L’avevo notato prima mentre confabulava con altri pescatori. Salì direttamente sulla barca e con fare spicciolo mi chiese quanto mi aveva chiesto lo squalo – così lo chiamò. Glielo dissi. Evidentemente non era molto amato il mio salvatore-occhialuto, perché dopo aver vociato la cifra al capannello degli altri suoi colleghi, sciorinò una invettiva a danno dello squalo-avvoltoio, elencando una lunga serie di misfatti che, a dir suo, pendevano sul capo del suddetto al casellario giudiziario. “Tu non ti preoccupare, mona d’un terron, ci pensiamo noi – concluse. Ci pensarono loro infatti. Non so cosa successe, per prudenza non mi informai sui dettagli. Dovettero ricorrere a delle minacce perché il tale occhialuto ridusse a meno di metà la cifra, mi mise a disposizione la sua officina, l’attrezzatura e in qualche occasione anche un suo operaio. Passai quasi un mese a Chioggia. Con il legno avevo una certa dimestichezza e con i consigli di quei meravigliosi pescatori mi trasformai in mastro d’ascia, facendo rinascere dalle mie mani la mia barca. Ci vivevamo dentro comunque. Giuseppe era felice : era diventato la mascotte dei pescatori che l’avevano praticamente adottato, anzi avevano adottato l’intera famiglia. Ogni giorno ci arrivava una busta di pesce. Proprio sopra il moletto dove stazionava la barca, c’era una trattoria gestita da un napoletano (anche lui fu subito informato della nostra storia). Con la scusa che gli portavo il pesce che mi regalavano i pescatori per conservarlo nel frigo, finiva col cucinarlo lui e praticamente dopo due giorni mangiavamo gratis nella sua trattoria.
Una sera un violento temporale con pioggia a catinelle, la coperta faceva ancora acqua, arrivò Corrado, ci imbarcò a forza sulla sua macchina e ci portò a casa sua; lui per discrezione andò a dormire sul suo peschereccio. Una pacchia! La mia barca dopo un mese di lavoro, irrobustita, riverniciata, riattrezzata a dovere, era pronta per riprendere il cammino. Meditavo di scenderla ancora per qualche settimana e poi lasciarla in qualche posto sicuro lungo la costa per riprenderla in altri tempi. Qualche giorno prima della partenza, il mio amico Corrado arriva trafelato e mi comunica che tra dieci giorni arriva un pezzo di macchinario che dovrà essere portato allo stabilimento petrolchimico di Augusta (30 Km da Catania): e a portarlo sarà lui col suo peschereccio.

E allora? -chiedo. “Allora, mona d’un terron, ti porto a casa mi, la to femina, to fiol e la tinossa e fasemo la bela vita, pescando, bevendo e mangiando”. La manna, la manna caduta dal cielo!
Il suo era un peschereccio robusto e grande abbastanza da contenere in coperta i miei 5 metri di tinozza. Sicché mi detti da fare per costruire una specie di invaso. La gru c’era, e aspettai ancora 10 giorni. Al nono, Corrado esce per una battuta di pesca, si rompe il cavo dello strascico che lo colpisce in testa.
Quando lasciammo Chioggia era ancora all’ospedale in semicoma. Non ne ho mai più saputo nulla: era una splendida persona. Fine della manna. Si ritorna sul tetro. Ormai l’idea che la mia barca potesse arrivare a destinazione sul groppone di un’altra cosa galleggiante (idea che mai prima mi avrebbe sfiorato le meningi), si era impiantata nel mio cervello e mi appariva ora come l’unica soluzione possibile. Eravamo già a fine agosto e ogni altra strada nautica era da scartare, un poco per mancanza di tempo, un poco per l’approssimarsi dell’imminente fine stagione estiva.
Sicché animato da una perentoria e furibonda speranza mi misi alla ricerca di un altro imbarco. Prima a Chioggia. Nessuno sapeva dirmi chi avrebbe potuto portare il macchinario che era stato affidato a Corrado. Chiesi in giro per qualche nave. Mi dissero di provare a Venezia e infatti ci andai : esploravo i moli alla ricerca di qualche indizio che indicasse navi in partenza per il sud. Niente. Anzi le mie domande all’uopo generavano sempre una specie di velata commiserazione. Poi a Ravenna. Maledizione: di tutte le navi da carico non ce n’era una che arrivasse in fondo allo stivale e le poche che passavano lo Stretto, o erano straniere che non prendevano altri carichi oppure erano petroliere. Girovagando lungo i moli, ormai sfiduciato, forse una guida istintiva mi porta sotto la fiancata di un mercantile apparentemente straniero, portava sulla prua un nome e un porto di immatricolazione tedesco, ma batteva bandiera italica. C’era un tizio affacciato dal parapetto visibilmente sfaccendato e con la pipa in bocca. Ogni volta che precedentemente avevo chiesto “Dove va questa nave?” mi avevano sempre guardato storto, per cui quella volta mi risolsi di cambiare ritornello e vociai all’indirizzo della pipa del secondo piano “C’è possibilità di imbarco su questa nave?” Il tipo, che si rivelò più tardi essere il nostromo, stranamente interessato a quella domanda mi fece segno di salire dalla scaletta e affabilmente accettò di ascoltarmi. Gli riferì del mio problema. “Deve parlare col comandante, una possibilità ci sarebbe…” -fà lui misteriosamente, tirando di pipa. “Quale?” – chiedo emozionato. “Bisogna conoscere il greco antico”. Rimasi a bocca aperta. “Deve sapere che il comandante è un cuore duro, ma si scioglie facilmente davanti a qualcuno che sa di classici greci chessò Euripide, Sofocle, Platone, Pericle…E’ un patito di queste cose…” Francamente, pur essendo aperto e disponibile per ogni genere di sfida all’impossibile, a questo tipo di torneo non ero preparato. Il mio unico anno di ginnasio subito sostituito con i cinque di liceo scientifico non era sufficiente per affrontare una simile contesa.
Ma era la mia ultima speranza, sicché su consiglio del nostromo mi sedetti su un bittone del molo e aspettai un paio d’ore l’arrivo del comandante. Nel frattempo mentre pietosamente rovistavo nei miei ricordi liceali alla ricerca di un qualche brandello di coniugazioni vetero-greche, un’idea luminosa fece capolino e si insediò fieramente nel mio progetto tattico.

-Ma io sono un verace figlio della magna Grecia. Empedocle, Gorgia da Lentini, Archimede, tutta gente delle mie parti…praticamente parenti. Felice di aver trovato un bell’asso nella manica, cominciai a ripassarmi coscienziosamente tutto quello che sapevo riguardo leggende, modi di dire, espressioni dialettali, favole e quant’altro che abbondavano nella naturale condizione di figlio diretto di Pericle nella quale mi ero collocato. Arrivò…impressionante! Un professore di greco-latino spiccicato. Piccolino, paffutello, borghesevestito senza fronzoli stile anni 50 e, manco a dirlo, blocco di libri dall’inequivocabile aspetto di ponderose opere arcaiche, sottobraccio. Salì la scaletta col passo meno marino che avessi mai visto.

-Ma che ci faceva quello nella marina mercantile? Ad un segno convenuto del nostromo salgo e mi fa accomodare nella cabina personale del comandante. Niente di vistoso, classica. Lui dietro un tavolo aveva subito una sbalorditiva trasformazione. Ha il piglio di una SS adesso e senza formalità spara: “Il manifesto di carico della nave non consente di imbarcare altra merce…ma lei di dov’è?”
Ero intimidito e mi sentivo già liquidato seccamente, mi esce un sommesso :”Catania”

S’illuminò tutto”…Ah! Catania, bellissima e nobile città, fondata da una colonia di calcidesi al tempo di Atene, ci sono stato nel ’50 …i suoi resti del teatro greco, magniloquenti…e poi l’Etna… eppoi Piazza Armerina …i mosaici…la necropoli”. Irradiò, sparpagliò, scoppiettò, ai quattro angoli della cabina una mitragliata di gioiosi squittii, di esaltati gorgheggi, di mugolii goduriosi, di estatici sospiri. Cominciai a respirare; poi cominciai a godermi tutta quel cibo delizioso che mi stava offrendo su quella che allucinai essere la tavola più imbandita del reame. Mi offre un intervallo di estasi e io ne approfitto: “Sa noi la Magna Grecia ce l’abbiamo nel sangue…il senso dell’ospitalità, Ulisse, i Feaci… per noi il viandante è sacro…” Zac! Faccio centro…

“Dove ce l’ha la barca?”

“A Chioggia” – Vittoria, esultavo. “Bene! La sua barca viaggerà fuori dal manifesto di imbarco come mio bagaglio personale.

La porti qua entro la prossima settimana. Noi partiremo con un carico di cemento alla volta di Sfax in Tunisia, poi ci dirigiamo in Sicilia a Porto Empedocle per caricare sale e portarlo a Genova. Li potrà ritirare la barca, ma stia attento a Porto Empedocle non staremo più di mezza giornata per caricare e non possiamo aspettare. Si metta d’accordo col nostromo per il resto.”

Mi profondo in ringraziamenti, anche il baciamano gli avrei fatto. Poi mi metto d’accordo col nostromo. Caliamo la barca nella stiva sopra il cemento, io torno in Sicilia, tra 12-13 giorni, appena attraccati a Porto Empedocle lui mi fa un telegramma, tempo massimo 2-3 ore devo essere a ritirare la barca. Gli prometto anche del denaro, almeno a lui. E’ fatta. Torno all’ovile raggiante.
Freneticamente e senza perdere un attimo, sfilo tutta l’infida costa fino a Ravenna in tempo record. Viaggio senza storia. Era un trasferimento, stavolta, a misura umana. Solo col batticuore di non arrivare a tempo. Ci arrivai invece, proprio mentre la nave terminava le operazioni di carico. Sotto la fiancata di quell’enorme mercantile la mia barchetta scompariva. Albero legato in coperta.

“Niente benzina a bordo” – “Ok!”. Venne issata sul ponte e poi ,ancora gocciolante entrò nella voragine della stiva per essere adagiata su un cuscino di sacchi di cemento con nicchia per accogliere la deriva. Chiusura del boccaporto. Arrivederci in Sicilia, mia amata. Gongolavo felice quando presi il treno, col valigione, e la famiglia alla quale quella vita errabonda cominciava a piacere. Già mi vedevo veleggiare felice nelle natie acque ioniche..
Non potevo sapere, me tapino, che…

CONTINUA

Nunzio Platania

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